Per comprendere un tema oggigiorno così attuale come quello dei vini naturali, è necessario ascoltare le parole di coloro che questo mondo lo conoscono bene in quanto lo frequentano da molti anni.
Sandro Sangiorgi è una di queste persone, forse la più titolata a livello nazionale per poter spiegare cosa è oggi il vino naturale, partendo dagli anni in cui ha iniziato a svilupparsi questa nuova filosofia.
Sandro Sangiorgi ha vissuto sulla propria pelle questo nuovo paradigma, trovandosi ad un certo punto della sua vita e della sua carriera lavorativa in difficoltà nei confronti dei vini cosiddetti “convenzionali”.
I vini naturali sono stati per lui – lo ammette lui stesso – una liberazione, un modo nuovo di guardare e vivere il vino, sia dal punto di vista professionale che personale.
Dalla fine degli anni ’90 Sandro Sangiorgi si dedica completamente al vino naturale, fondando Porthos, un progetto che ha l’obiettivo di creare una nuova consapevolezza attraverso le tre anime che lo compongono:
la casa editrice Porthos, con cui vengono pubblicati libri a tema; la rivista Porthos, periodico online; e gli eventi di “Porthos Racconta…” nei quali Sandro, coadiuvato dai suoi collaboratori (tra cui il validissimo e competente Matteo Gallello), dirigono serate e degustazioni all’insegna del vino naturale.
Sandro ha anche scritto vari libri, saggi e trattati sul vino dei produttori naturali (come sarebbe più corretto chiamarlo), tra cui citiamo quello forse più famoso e conosciuto – L’invenzione della gioia – in cui viene illustrata la degustazione attraverso quattro sezioni nelle quali il lettore viaggia in tutte le componenti del vino, non solo quelle organolettiche ma anche – e soprattutto – quelle emotive.
Abbiamo avuto il piacere di parlare con Sandro Sangiorgi di vino naturale e tante altre cose legate a questo mondo in una recente video-intervista, di cui proponiamo questo interessante estratto.
È arrivato dunque il momento di dare la parola a Sandro Sangiorgi, buona lettura!
Iniziamo l’intervista con Sandro Sangiorgi con una domanda che potrebbe sembrare banale ma che secondo noi non lo è, ovvero: cos’è – o cosa dovrebbe essere – per te il vino e cos’è – o cosa dovrebbe essere – il vino naturale?
Il vino ed il vino naturale per me coincidono.
Per me un vino buono può essere solo un vino naturale.
C’è anche da dire però che non tutti quanti i vini dei produttori naturali sono necessariamente buoni, anzi, con le ultime ondate comincia a prevalere una massa di vino non particolarmente interessante e qualche volta difettoso.
Nonostante questo c’è la speranza che nelle prossime annate si riesca a fare meglio, che si impari, e questi produttori si aggiungeranno a quelli che già oggi producono dei vini buoni.
Questo è un passaggio è fondamentale.
Quindi per me non c’è distinzione (tra vino e vino naturale, ndr). Quello che chiamiamo vino “convenzionale” o “industriale”, non è necessariamente quello prodotto in milioni di bottiglie, ma è un metodo applicabile anche ad una produzione di cinquemila bottiglie, dove vengono applicati protocolli seriali, predefiniti, e ancora prima che l’uva venga raccolta c’è un risultato dato, un obiettivo di risultato organolettico, espressivo, che viene deciso a priori.
Si otterrà quindi quello che viene stabilito e non un’altra cosa, indipendentemente dall’andamento della stagione. E questo si può fare sia a livello industriale, con numeri molto elevati, che a livello apparentemente “artigianale”, anche se non c’è niente di artigianale in questo approccio; quando c’è la serialità, quando a monte si decide che tra le bottiglie prodotte non ci deve essere differenza e che l’evoluzione che il vino subirà in bottiglia li porterà ad assomigliarsi sempre di più, si stravolge quello che – metaforicamente – la vita normalmente fa con il passare del tempo, ovvero definisce e caratterizza le persone. Ci sono dei vini, anche apparentemente artigianali, che bevuti dopo dieci anni – due bottiglie dello stesso vino – si assomigliano ancora di più di quanto non si assomigliassero all’inizio. Questo non perché convergano le sensazioni, ma perché è stata annullata tutta la parte viva di questi vini e di conseguenza si riducono ad essere come delle regole analitiche, come delle soluzioni chimico-fisiche incapaci di fare quello che il vino dovrebbe fare.
Il vino per me è un nutrimento, non inteso come alimento; quello che mi interessa è l’aspetto culturale e spirituale che il vino può cogliere dentro di noi, il suo nutrirmi culturalmente e spiritualmente.
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Recentemente ho letto il libro di Corrado Dottori – Non è il vino dell’enologo di cui hai scritto la postfazione – nel quale l’autore dedica ampio spazio al ruolo del contadino-vignaiolo contemporaneo. Come è cambiato e come deve essere nel 2020 il vignaiolo in contrapposizione – se così si può definire – al ruolo dell’enologo?
La funzione dell’enologo, ad un certo punto della storia recente del vino è stata necessaria proprio perché il vino è diventato un fenomeno globale, e quindi la grandissima parte del vino ha cominciato a muoversi non più a livello intracittadino, interprovinciale, interregionale, ma è uscito da questi confini ed ha iniziato a viaggiare tanto. […]
Il mio percorso inizia alla fine degli anni ‘70 e benché fossi ancora giovane, mi interessava già il vino e mi colpiva la percezione di una divisione tra quello che era il vino contadino ed il vino che già a quei tempi era chiaramente industriale, e questa distinzione era tangibile ma era il modo con cui si percepiva il vino allora.
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Nel corso della storia contemporanea del vino, abbiamo assistito a molti cambiamenti, a volte dettati dal palato del consumatore, altre da strategie di marketing adottate da qualche marchio potente desideroso di “creare un bisogno”, pilotando l’attenzione magari rivolgendola nella direzione della tipologia di vino che produceva. Nel caso del vino dei produttori naturali, siamo davanti a qualcosa di differente, è un cambio DI del paradigma, è una questione ideologica; si può a ragione dire che si tratta di una rivoluzione, e non di un semplice cambiamento?
Non so se è il caso di chiamarla rivoluzione, è sicuramente un forte spostamento di attenzione; per me è stato come uno schiaffo, la cui funzione fondamentalmente è quella di farti rivolgere lo sguardo da un’altra parte e non guardare più nella stessa direzione.
Più che una rivoluzione direi che è stata una liberazione, cioè ci ha liberato da una serie di vincoli che ormai avevano stretto la tecnica enologica con la degustazione in una specie di meccanismo che porta ad un corto circuito, in cui perdi il senso della bellezza, perdi il senso di benessere, perdi ciò per cui il vino è così interessante.
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Una considerazione ora riguardo l’utilizzo dell’anidride solforosa e sulla tendenza degli ultimi anni a considerare un vino come buono solo perché non contiene – o contiene pochi – solfiti. Senza voler fare un’apologia della solforosa, non bisogna secondo me considerarla il male assoluto, considerata anche l’importanza del ruolo che svolge per la conservazione del vino. Qual è il tuo parere a riguardo?
In questi casi si fa il gioco che si vuole combattere. Vogliamo combattere la semplificazione del vino convenzionale, vogliamo combattere la mancanza di emotività e di vita del convenzionale? Nel momento in cui prendi un solo soggetto, l’anidride solforosa, e lo metti come il solo responsabile del buono o del cattivo, stai facendo esattamente questo tipo di gioco.
E i produttori di vino convenzionale, qualche anno fa, hanno dimostrato la loro tendenza alla semplificazione proprio in questo ambito, quando nel giro di sei mesi hanno iniziato a produrre vino “zero solfiti”; il problema di quei vini era che la mancanza di solforosa era dovuta al fatto che tutte le sostanze contenute nel vino venivano azzerate nelle fasi preliminari della sua lavorazione. Cosa significava questo? Che non c’era solforosa perché non c’era niente da proteggere, i vini erano delle “bare” in cui ogni aspetto vitale era stato soppresso nelle prime fasi per creare un vino di quel tipo. […]
Ad un certo punto ci si accorge che per amministrare, per custodire la vita (dentro ad un vino, ndr) c’è bisogno di molto meno solforosa di quanta se ne usasse fino a quel momento. Anzi, si deve favorire la vita, quindi la solforosa la devi usare solo quando è necessaria, quando serve.
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Sei favorevole o contrario ad un disciplinare che regolamenti il vino dei produttori naturali? Pensi che sia una strada percorribile?
Recentemente a Porthos abbiamo affrontato la questione del cosiddetto “disciplinare” uscito in Francia qualche mese fa riguardo i vini naturali, ma abbiamo scoperto che si tratta solamente di un marchio con cui si autorizza un gruppo di produttori a poter usare il termine “naturale”. Non è una certificazione a livello statale, ed un marchio è molto diverso da una certificazione rilasciata da un ente governativo.
Io credo che prima di decidere il disciplinare i produttori di vino naturale devono fare un’associazione di categoria seria, unita, compatta e, viste le possibilità, anche abbastanza numerosa e quindi influente.
Solo quando alle spalle c’è un’associazione di questo tipo, formata da produttori anche diversi tra loro ma con un pensiero ed un obiettivo comune, allora è possibile pensare ad un disciplinare, e sarebbe anche semplice e naturale, proprio perché questi sarebbero temi condivisi e su cui nessuno avrebbe da discutere.
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La versione integrale della video-intervista la puoi vedere cliccando nell’immagine qua sotto:
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