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interviste

5 DOMANDE A…GIANMICHELE COLUMBU

di Cristian 18/03/2020
di Cristian 18/03/2020
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La Malvasia di Bosa è uno dei vini più tipici e caratteristici che un territorio possa esprimere.

Siamo in Sardegna, in provincia di Oristano, lungo la costa nord-occidentale dell’isola, e Bosa è uno di quei borghi incantevoli che lascia senza fiato.

Il vino prodotto nel suo territorio, la Malvasia, nasce dalle mani e dalla mente di un grande vignaiolo, Giovanni Battista Columbu, che tra gli anni ’60 e ’70 è autore della nascita prima e consacrazione poi della Malvasia di Bosa a livello nazionale ed internazionale.

Giovanni Battista ci ha lasciato nel 2012 e da allora l’azienda da lui fondata è passata nelle mani del figlio Gianmichele, destinatario di un’eredità enologica di prim’ordine, e che porta avanti con passione e competenza, con gli stessi ideali trasmessigli dal papà.

L’intervista è un viaggio appassionante tra ricordi ed il presente della Malvasia di Bosa, un susseguirsi di pensieri che spaziano nei vari anfratti del mondo del vino, così amato e così incredibilmente colmo di emozioni pure.

È arrivato il momento di leggere le parole di Gianmichele Columbu, mettetevi comodi e buona lettura.

  1. Nel 1975 avvenne l’importante incontro con Mario Soldati, che si fermò a Bosa per conoscere suo papà e la storia della Malvasia di Bosa e a cui lei era presente insieme a suo zio, Salvatore Deriu Mocci, detto “Zegone” (il ciecone, così noto per via della sua quasi totale cecità). Cosa ricorda di quel giorno? Ci può raccontare come andò quel memorabile incontro?

Come già ebbi modo di ricordare nel descrivere quelle giornate, la mia giovane età non mi permise di cogliere appieno lo specifico lessico e certe profondità delle discussioni che si tennero tra Salvatore Deriu, mio padre e Soldati, tuttavia mi colpì la capacità introspettiva e l’acuta curiosità che lui poneva nelle sue domande/risposte…era come se si conoscessero tutti e tre da tempo e prendessero atto di pregi e difetti del sistema vino e dell’agricoltura in genere di quel tempo.

Sono convinto che quei discorsi oggi sarebbero incredibilmente attuali e dirompenti, fu molto bello vedere l’entusiasmo col quale passavano da un sopralluogo ad un assaggio in cantina ed ancora sul campo per apprezzare le peculiarità del terroir raccontate poi davanti a un bicchiere…

Il mio ruolo allora si limitò ad autista accompagnatore su una Mehari scoperta e all’organizzazione dei pranzi in campagna, ma l’insegnamento che ne è derivato ha lasciato traccia indelebile e mi guida sempre nei passi di un mestiere che è il mio quotidiano.

  1. Si può affermare – senza ombra di dubbio – che suo papà Giovanni Battista sia stato colui che ha risollevato la viticoltura a Bosa anche attraverso una serie di iniziative di carattere sociale, come l’alfabetizzazione dei contadini bosani; a distanza di tanti anni da quel periodo, come pensa che sia cambiato il mondo del vino a Bosa e qual è l’eredità lasciata da suo papà al mondo del vino?

Credo che un punto importante dell’operato di mio padre sia l’aver messo intorno a un tavolo per la prima volta la proprietà (dei vigneti) e le maestranze del vino, intuendo che separati avrebbero portato alla dispersione del patrimonio da una parte e della conoscenza (professionalità, esperienza) dall’altra, cosa che negli anni sessanta già avveniva con l’avvento delle grandi cantine sociali.

Il contesto fu il Centro di Cultura Popolare (U.N.L.A.) che dirigeva e che parallelamente all’azione di alfabetizzazione generica portò avanti l’iniziativa sino alla nascita del primo disciplinare della D.O.C..

La sua eredità più importante ritengo sia la consapevolezza di poter affermare la propria identità territoriale attraverso un prodotto come la malvasia che è ben più di un ottimo vino ma diventa un metaprodotto capace di essere attore di sviluppo locale.

Le cose cambiate rispetto all’epoca sono molteplici sia di segno positivo che, a mio parere, di segno opposto.

Tra le prime certamente una diffusa cultura di sostenibilità sul campo con attenzioni ad aspetti che prima tendevano a privilegiare tecniche massive e impattanti mutuate da comparti vitivinicoli alieni al territorio e spesso “propagandate” anche ufficialmente dagli enti di sostegno.

Tra i pericoli vedo l’occhieggiare di alcuni a declinazioni produttive improprie per questo vitigno nel segno di una maggior produttività e “mondanità” vinicola.

La mia esperienza diretta mi dice senza tema di smentita che l’unica via percorribile per questo vino sta nella sua unicità, nel rispetto del suo terroir a tutto tondo.

E’ così che registriamo sempre più feedback positivi dai mercati nazionali e internazionali ancor più, cosa che non manco mai di dire quando sento parlare di nuove formule di prodotto con uvaggi misti e quant’altro.

La cantina delle botti della Malvasia di Bosa di Gianmichele
  1. Negli ultimi anni c’è stata una generale presa di coscienza riguardo le tematiche ambientali e salutistiche al punto che nel mondo della viticoltura si sta vedendo una piccola, graduale e tutt’altro che scontata conversione a procedure meno invasive, in modo, tra le le altre cose, da salvaguardare e preservare il “terroir” in cui crescono i vigneti; ci può dire qual è il suo pensiero circa questa tematica e se nella sua cantina seguite questi metodi o altri più specifici?

Nel ’99 ho iniziato l’esperienza diretta di bioattivazione del suolo aziendale con l’utilizzo di miscele enzimatico-batteriche in sostituzione dei classici concimi di sintesi chimica (benché già gli utilizzassimo saltuariamente) nonché il riutilizzo delle biomasse autoprodotte e l’uso degli antifungini tradizionali (zolfo e rame).

Oggi questo profilo viene abitualmente definito proprio dei “vini naturali” e parallelamente ne esistono altri anche con certificazioni ufficiali (biologici, biodinamici).

Lo stato dell’arte a mio parere è che tutto va contestualizzato, anche a fronte delle “certificazioni” perché nessun vigneto e sotto una cupola di vetro…per così dire conta molto il comportamento del tuo vicino, lui e il primo obiettivo da coinvolgere nel circolo virtuoso…

  1. Nel 2020 lei si “diverte” ancora a fare il vino? Quali sensazioni prova ad ogni potatura, ad ogni vendemmia, ogni volta che rimette il piede in cantina ed ogni volta che assaggia il vino dentro la botte?

Ognuno di questi passaggi e come un grano di un rosario di emozioni che si snoda nell’annualità agricola, e così come nella ritualità della fede può essere soggetto a sensazioni contrastanti legate allo stato d’animo.

La potatura è sofferenza e speranza: si taglia il corpo della vite per ricreare nuova vitalità nel frutto, la vendemmia è il coronamento del ciclo produttivo, il giorno della festa con chi ha condiviso sudore ma anche delusione se ciò non corrisponde alle aspettative, la visita in cantina è la sublimazione vera di tutto il lavoro, il luogo di pace e di rispetto per il vino, è lì che ti parla e che puoi parlare con lui ed è li che per la prima volta lui entra in te.

  1. Se lei dovesse descrivere la Malvasia di Bosa ad una persona che non la conosce, come racconterebbe questo incredibile vino?

Ti bussa alle spalle ma non ti spaventa, ti corteggia senza dirtelo e se la bevi si fa un giro dentro te dai piedi alla punta dei capelli passando per l’inguine, il naso, l’anima…e non ha fretta di andarsene!


Ringraziamo Gianmichele Columbu per l’intervista, siamo orgogliosi di averlo ospitato nel blog.

Quando rileggiamo le sue parole proviamo sempre delle sensazioni positive, suscitate dalle parole di un uomo che vive le difficoltà e le soddisfazioni del vino quotidianamente, la stessa Malvasia di Bosa che suo papà Giovanni Battista più di cinquant’anni fa ha contribuito a creare e diffondere nel mondo.

intervistesardegna

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